Bulli e professore di Lucca in questi giorni sono stati su tutti i giornali, telegiornali, trasmissioni televisive. Si è detto molto del lassismo dei genitori di questi ragazzi. Ormai le famiglie non educano più, lasciano ai figli lo scettro del comando, si dice da più parti. Invece i ragazzi devono avere timore degli adulti, è sulla paura che si fonda il rispetto. Il professore avrebbe dovuto far vedere chi comanda! Se avessero avuto paura nulla di tutto ciò sarebbe successo.
Allora provo a riflettere, senza tirar fuori i forconi contro degli adolescenti ma senza neanche minimizzare.
Se il prof fosse stato una professoressa donna l’avremmo vissuta come un soggetto debole; quindi l’avremmo pensata più facilmente come una vittima, perché impossibilitata fisicamente a difendersi. Ma dal punto di vista psichico non cambia nulla, questo professore è nella posizione di un soggetto debole. Una vittima non può reagire perché si sente paralizzata, non perché non sia abbastanza forte. E comunque un gruppo di ragazzi in una classe ha anche una certa superiorità fisica, su una persona sola. Trovo che la scelta del dirigente di punire il professore sia un messaggio molto pericoloso. Poi si, probabilmente non fa il giusto lavoro per lui. Sicuramente, io non vorrei per le mie figlie un professore così incapace di gestire la classe. I ragazzi hanno bisogno di trasgredire delle regole, non di essere senza regole. Ma ai ragazzi, non solo a questi, dobbiamo rimandare anche una responsabilità personale.
È difficilissimo che i genitori si accorgano di questo genere di comportamenti. A volte sono ragazzi figli di genitori violenti che riportano fuori quello che vivono a casa, ma non sempre. Di solito queste famiglie stigmatizzano il bullismo, ritengono di aver insegnato valori molto buoni e radicati. E hanno figli obbedienti a casa. Quindi quando scoprono come si comportano fuori rimangono sconcertati e profondamente delusi. Sentono di aver fatto davvero il meglio che potevano. E hanno insegnato davvero, a parole, degli ottimi valori. Sono però genitori poco capaci di riflessione emotiva e molto giudicanti. Sono quelli che ritengono che se un pestaggio è violenza, uno schiaffo può essere educativo.
Dunque dopo i fatti di Lucca ci ritroviamo ad interrogarci sulla pedagogia. Ci vuole più durezza, più punizioni. Riesumiamo la pedagogia ottocentesca, ha scritto qualcuno. Bisogna incutere timore ai giovani, bisogna bullizzare, per prevenire il bullismo. È una strana teoria, questa, impossibile da sradicare. È in effetti esperienza di ogni genitore che se alza la voce, o minaccia, o picchia, ottiene più facilmente obbedienza, almeno nell’immediato.
La ricerca però ci dice che l’unica punizione veramente efficace è quella della fiamma. Ogni volta che la tocco mi scotto, mi scotto immediatamente e senza attivazione emotiva. La fiamma non è arrabbiata con me, né dopo mi chiede scusa, semplicemente scotta. Ogni volta e appena la tocco. Pressoché impossibile, per un genitore, attuare questo tipo di punizione; ma è l’unico che estingue un comportamento, cioè fa in modo che non si ripresenti più. Le punizioni dai genitori vengono date una volta sì, una no; una volta subito, una volta più tardi; a volte sono neutre, a volte cariche di rabbia, a volte di indifferenza. Queste punizioni funzionano solo in quel momento. Ma poi il comportamento indesiderato si ripresenta puntuale.
Quando qualcuno ci fa paura il nostro sistema di autoconservazione ci spinge ad agire per evitare di farci male. E se tu minacci uno schiaffo e io sono piccolo e tu grande l’unica azione in mio potere è obbedire. Ma mentre obbedisco imparo delle cose. Innanzitutto imparo che io posso essere costretto e umiliato, perché è umiliante obbedire per paura. Sento poi che io sono debole, cosa che già percepisco abbastanza, visto che sono un bambino in un mondo di adulti. Faccio esperienza del fatto che i forti hanno la meglio sui più deboli. Vedo che i conflitti si gestiscono usando il proprio potere e facendo paura all’altro.
Imparo tutte queste cose e mentre le imparo cresco, divento adolescente, il mio cervello fa collegamenti; vado nel mondo, sempre più in autonomia. Metto nel mondo quello che ho imparato. I valori espliciti (“Non rubare”) e quelli impliciti (“I prepotenti vincono, usa il tuo potere per dominare gli altri”).
Forse vale la pena costruire una pedagogia che tenga conto anche delle ricadute sul futuro, di un cervello in via di sviluppo.
Certo gli adulti, e un prof per primo, devono essere autorevoli. Ma che cosa è l’autorevolezza? Si mangia? Si compra su ebay? È un assetto psichico di flessibilità ma anche rispetto di sé e dell’altro. La persona autorevole non prevarica, ma non si fa prevaricare. Aderisce ai suoi desideri e bisogni, tenendo conto di quelli dell’altro. Bulli e professore di Lucca sono l’antitesi dell’autorevolezza. Questi ragazzi sono capaci di ottenere qualcosa con le loro prepotenze, non col rispetto. Gli altri ridono di quello che fanno, ma appena il vento cambia nessuno più li sostiene. E uno di questi ragazzi, come confessa alle Iene, da leader che si sentiva diventa “un coglione”.
Per essere autorevoli bisogna mettere anche dei limiti. Non limiti di principio, di potere, di esercizio della forza. Limiti per dire che siamo in due in quella relazione. Significa sostenere il mio no anche se tu non sei d’accordo. Non posso ragionare su tutto, spiegare tutto, aspettarmi comprensione e condivisione su tutto. Perché, senza rabbia, semplicemente io so o voglio delle cose che un bambino non puoi capire. O che capisce, ma solo per un istante. Nell’istante dopo non più.
Se uno mi riga la macchina mi viene voglia magari di prenderlo a pugni. Ma c’è un limite esterno, oggettivo -la legge- che mi dice che non posso. Non sto nemmeno lì a pensarci, perché se no finisco nei guai. Se il limite non ci fosse io dovrei fare i conti con la mia coscienza; dovrei valutare se è giusto, se è sbagliato, qual è il confine che si può o non si può superare, cosa dovrei fare. Mi salirebbe l’ansia e vivrei minuti di grande incertezza; qualsiasi decisione io prendessi sarebbe mia completa responsabilità, con il carico di angoscia che ne deriva. È in questo senso che le regole e i limiti rassicurano.
Non posso dover scegliere di far felice mamma, o dover scegliere di rinunciare a qualcosa a cui tengo per sollevarla da un peso. Deve scegliere lei, se no io ho troppa responsabilità. Io devo avere la responsabilità adeguata alla mia età e al mio ruolo. E se sono un adolescente non posso dovermi occupare io delle regole della classe: sta al professore definirle.
Non mi stuferò mai di ripetere quanto sia importante che gli adulti aiutino i bambini e i ragazzi a colorare emotivamente il mondo. Sviluppare competenza emotiva è la chiave per prevenire moltissime cose. Se io sento il dolore dell’altro non posso infliggerlo. Mi posso però orientare su ciò che l’altro prova solo se sono abituato a dare importanza anche a ciò che sento io; diversamente, sono in costante assetto di guerra per difendermi.
Uno dei ragazzi di Lucca, intervistato dalle Iene, dice: “Tutti ridevano. Non ci pensavo. Ho fatto solo una cazzata. Lo facevano anche le altre classi. Io non sono un bullo. Io non mi sono preoccupato del video”. Se lo facevano tutti, la responsabilità è diffusa. Questo è un meccanismo terribile soprattutto nel cyberbullismo: sei anonimo, le cattiverie rimbalzano di telefono in telefono, lo fanno tutti. È come se il dolore della vittima si spalmasse su molti e ognuno poi ne portasse solo un minimo insignificante pezzettino.
Ma il dolore della vittima non si divide per niente, si moltiplica. Durante l’adolescenza essere accettato dai pari è un bisogno primario, al pari di fame e sete. È alla base della piramide dei bisogni. Gli altri che ridono di quello che vedono accadere tra noi bulli e professore mi fanno sentire bene. Ora però che gli altri mi deridono, non mi accettano più, mi stigmatizzano, io vado in crisi. Solo così, quando non sento più l’approvazione dei pari, comincio a riflettere sulle mie azioni.
Certo i ragazzi non si possono autoeducare, gli adulti ci devono essere. Ma dobbiamo anche rimandare una certa responsabilità ai giovani, compatibilmente con la loro età. Non posso occuparmi del budget familiare a 5 anni, ma posso non perdere una monetina che la mamma mi ha dato per le caramelle. E non posso occuparmi della fame nel mondo a 14 anni, ma posso considerare come sta il mio compagno, o il mio professore.
Devo essere abituato a ritenere sbagliati la prevaricazione e l’abuso di potere, devo essere educato a questo. Ma poi la responsabilità è mia.
Trovo preziosa la riflessione di Lorella Boccalini*. Sulla vicenda di Lucca la pedagogista afferma:
“Mi sembra che ancora una volta si perda l’occasione di capire che a scuola i ragazzi non vanno solo per imparare delle materie. Ma per crescere, imparare a stare assieme, a provare ad assumere il punto di vista dell’altro, a capire come si può convivere senza schiacciare nessuno. A potenziare le risorse per stare bene ma non a discapito degli altri. Certo, la famiglia dovrebbe educare, ma sui singoli genitori possiamo solo fare proposte di riflessione, che ognuno può cogliere ma anche no. Mentre sulla formazione degli insegnanti possiamo fare molto, sulla loro capacità di aiutare i ragazzi a dar senso ai comportamenti e a stare assieme meglio.
Mi piacerebbe che la scuola fosse anche questo. Che fosse un luogo in cui i docenti hanno occhio, interesse e competenze per questo lavoro, importante quanto la fisica e la matematica. Poi certo, un lavoro sulle famiglie è importante. Ma formare i professori e i maestri in un certo modo potrebbe essere un obbligo. Questo darebbe sicuramente risultati; renderebbe la scuola un luogo che davvero può dare opportunità a tutti, anche se i tuoi genitori quelle capacità per aiutarti non le hanno.
Invece, ancora una volta, si è parlato di differenze sociali, di punizioni esemplari, di genitori inadeguati e della povera vittima del professore. Nessuna riflessione sulla formazione degli insegnanti.”
* Counselor e formatrice del Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti con Daniele Novara
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