Fin dall’asilo può capitare di incontrare un bambino che ha comportamenti violenti. Per esempio urla, minaccia, rompe i materiali, lancia gli oggetti, tira calci e pugni. In queste situazioni tutti rischiano di entrare pesantemente in crisi. Se gli adulti non tengono, se non riescono a rimanere solidi e a proporre confini chiari la classe perde i suoi punti di riferimento.
Bisogna subito dire che ciascuno arriva in classe con un background che non dipende dagli insegnanti. La scuola dunque non è responsabile del temperamento degli alunni. Ma può fare qualcosa per aiutare un bambino che ha comportamenti violenti e i suoi compagni, anche quando non c’è un’insegnante di sostegno.
Il bambino che ha comportamenti violenti crea negli altri una sensazione di allarme e paura. L’imprevedibilità del suo agire spaventa.
Purtroppo è molto facile che con qualche compagno si instauri una relazione del tipo vittima-carnefice. Questi diventano i suoi bersagli più frequenti. Ma contemporaneamente provocano il bambino che ha comportamenti violenti per attirarne l’attenzione.
È facile anche che un bambino che ha comportamenti violenti diventi il capro espiatorio di tutti i problemi della classe. Qualsiasi cosa accada è colpa sua, anche quando non c’è.
Per fortuna spesso i bambini spesso sono molto empatici. Così colgono benissimo che il loro compagno sembra aggressivo ma in realtà si protegge con i pugni.
Ma da cosa si protegge? Credo che molto spesso, forse sempre, la risposta vada ricercata nel disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Quando un bambino subisce precocemente un trauma manifesta di solito due tipi di comportamenti. Può essere compiacente e remissivo: si mette allora facilmente in pericolo e diventa vittima. Oppure, al contrario, manifesta comportamenti aggressivi e oppositivi.
Il trauma precoce fa sì che si attivino nel bambino due meccanismi automatici di protezione. Uno arcaico, che si accende quando il pericolo è ingestibile. Dice al corpo: “Non muoverti, fai il morto qualunque cosa accada e fingi che non stia succedendo a te”. E poi un altro, che si attiva quando il pericolo sembra gestibile. Allora aumentano il battito cardiaco e la respirazione perché il corpo si prepara alle reazioni di attacco e fuga. Questo sistema dice al corpo: “Reagisci! Arrabbiati! Difenditi! Se serve picchia e fatti largo con qualsiasi mezzo!”.
Nel bambino che ha comportamenti violenti probabilmente si attivano questi due sistemi, alternativamente, quando qualche stimolo ambientale viene percepito come pericoloso.
Il problema è che i bambini traumatizzati rispondono spesso con comportamenti disregolati anche a stimoli che per tutti gli altri sono neutri. Siamo prima di tutto animali e un sorriso può essere un segnale di pericolo perché mostra i denti. Una mano tesa può spaventare se non ha il palmo rivolto verso l’alto come in segno di resa. Uno sguardo negli occhi può essere avvertito come una sfida.
Il bambino che ha comportamenti violenti è un bambino che non si sente al sicuro e si difende come può dalla sensazione di pericolo o minaccia. È quello stesso bambino che dopo, quando “torna in sé” e si rende conto di quello che ha fatto, prova dei sensi di colpa laceranti.
Una persona che si sente in pericolo non abbasserà la sua attivazione se un altro le urla contro, le va addosso, la guarda dall’alto in basso o interviene in modo fisicamente intrusivo. Questi atteggiamenti non fanno che peggiorare la situazione facendola sentire impotente.
Una persona che si sente in pericolo probabilmente si calmerà se qualcuno le parlerà con calma, dal basso verso l’alto, si avvicinerà con delicatezza e non la toccherà a meno che lei non si senta di voler avere un contatto.
Cioè si calmerà quando si sentirà di nuovo in condizioni di sicurezza e padronanza.
È dunque nella direzione della sicurezza che devono agire gli adulti che hanno a che fare con un bambino che ha comportamenti violenti.
Di seguito troverai dei suggerimenti pratici che puoi usare per aumentare il senso di sicurezza nel bambino che ha comportamenti violenti (Per approfondimenti v. Verardo, A.R., “Attaccamento traumatico: il ritorno alla sicurezza“, 2016, Giovanni Fioriti Editore).
È molto importante sottolineare i successi: ogni fallimento è conferma di inadeguatezza.
È sempre utilissimo coinvolgere il bambino dandogli delle responsabilità che è in grado di sostenere per fargli fare esperienze di successo.
Concordare un segnale con la classe perché ci si interrompa quando la tensione comincia a salire. Per esempio suonare un campanellino o accendere e spegnere 3 volte di seguito la luce e poi dire: “Ok, fermatevi un attimo, prendete un foglio e scrivete o disegnate quello che provate”.
Prediligere lavori cooperativi piuttosto che competitivi. I giochi cooperativi sono quelli in cui non c’è un vincitore: tutti collaborano in funzione di uno scopo condiviso.
Un bambino porta un adulto in giro per la stanza evitando gli ostacoli. Può usare un fazzoletto se non tollera il contatto. Solo se se la sente può fare scambio. Il resto della classe suggerisce dove andare, intanto il bambino porta in giro l’adulto a seconda dei suggerimenti che il gruppo dà.
A piccoli gruppi si lavora per costruire una scultura umana. Si può fare rimanendo in contatto o col corpo o attraverso un fazzoletto/corda/guanti se il contatto corporeo è vissuto come eccessivo.
Si disegna un cerchio grande di cartone e si lascia nella stanza a disposizione. Si dice ai bambini che potranno salire sul cerchio di carta quando sentono il bisogno di riposarsi o sentirsi al sicuro. Nessun potrà salire sul cerchio senza il permesso di chi è dentro. Sarà il bambino a scegliere fino a quanto qualcun altro si potrà avvicinare al centro, dove sta lui. Può chiedere a un altro di sedersi nel cerchio con lui per il tempo di cui ha bisogno.
Si può provare a farlo prima per gioco e intanto capire come ci si sente quando l’altro entra nel cerchio e qual è la distanza giusta per ciascuno.
In alternativa si può costruire un angolo della sicurezza nella stanza. Si delimita per esempio un angolo con del nastro adesivo in cui il bambino può rifugiarsi quando si sente minacciato o in pericolo.
Valgono in entrambi i posti le stesse regole: non si litiga, nessuno può entrare se non è invitato, nessuno si può avvicinare più di quanto vada bene alla persona al centro. Si può solo respirare o rilassarsi. Quando ci si sente calmi si può uscire.
Si disegna con le tempere il posto in cui si vorrebbe essere quando ci si sente tristi/arrabbiati/spaventati. Si rappresenta la situazione che aiuta a calmarsi.
Si tiene a disposizione un cuscino su cui ci si può sfogare con pugni e manate quando si è arrabbiati.
Per tirar fuori le emozioni senza danneggiare se stessi, altri o gli oggetti si insegna ai bambini ad esprimerle stabilendone l’intensità attraverso il volume. L’adulto fa da modello mentre presenta questo esercizio, modulando il volume della sua voce. Così il bambino impara come dire ciò che sente a volume basso, medio, alto, o altissimo a seconda dell’intensità di ciò che prova. Sentirà poi lo stato di calma e le sensazioni positive quando riuscirà ad esprimere le emozioni nel volume basso o nel silenzio.
Fondamentale è che il bambino dichiari a quale altezza di volume sta per esprimersi. Questo aumenta la funzione riflessiva perché pone un momento di pausa di pensiero tra l’emozione e la sua espressione.
Una volta consolidati certi meccanismi di sicurezza e creato un buon clima nella classe si può aggiungere la scatola dei ricordi positivi.
Quando un bambino è disregolato ci si ferma un attimo e si chiede alla classe di mettere in una immaginaria scatola tutti i bei momenti vissuti con quel bambino.
È importante che l’insegnante la proponga solo se sarà certo che questa scatola potrà essere riempita. Cioè che i compagni abbiano delle cose positive da metterci dentro. Altrimenti sarebbe solo più frustrante per chi in quel momento è già sregolato.
Sarebbe molto importante che il bambino e la sua famiglia venissero supportati con una psicoterapia. In particolare la ricerca indica nella tecnica EMDR il trattamento d’elezione per gli eventi traumatici.
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