Chiudere relazioni tossiche, pur vedendo chiaramente che sono distruttive e mortifere, può essere molto molto difficile.
La codipendenza è quella condizione in cui si sente di sacrificare completamente i propri bisogni personali nel tentativo di salvare il partner.
Si ha quando una persona permette ad un’altra di influenzarla, attraverso il suo comportamento, in modo eccessivo. Per esempio attraverso il ricatto: “Non mi lasciare se no mi suicido!”. Contemporaneamente però il codipendente è ossessionato dal desiderio di controllare tale comportamento. Il suo partner di solito è una persona con un disturbo psichico, per esempio dei tratti narcisisti o borderline. Spesso abusa di sostanze o ha altre forme di dipendenza.
La codipendenza non rientra tra i disturbi psicologici ma alcuni ritengono che invece sia una vera e propria patologia. Questa starebbe nel fatto di cercare, inconsapevolmente e cronicamente, un “altro da salvare”. In altre parole i dipendenti sarebbero due: il soggetto evidentemente disturbato e colui che se ne prende ossessivamente cura, fino all’autosacrificio.
La difficoltà di chiudere relazioni tossiche contrassegnate dalla codipendenza sta nella dinamica del “triangolo drammatico” descritto da Karpman.
Il triangolo drammatico è una modalità di interazione tra due persone, che giocano, a rotazione, i tre ruoli di vittima, salvatore e persecutore.
La Vittima è quello dei due molto sofferente, estremamente bisognoso, disperato. Egli non riesce a trovare il modo di colmare i suoi vuoti: il suo dolore è evidente. Ingaggia gli altri in una relazione che lo riempia e lo aiuti a stare finalmente meglio. Quando incontra qualcuno che, per sentirsi bene, ha bisogno di occuparsi degli altri è molto facile che si instauri questa dinamica di vittima-salvatore. Funziona più o meno così: “Io ho tanto bisogno, da solo non ce la faccio”; “Ci penso io a te, mi occupo io di te, così bisognoso: ecco che hai trovato un Salvatore”.
Il Salvatore ha bisogno di essere tale, ha bisogno di soddisfare le richieste di tutti per sentirsi a posto con se stesso. Non è di vero sostegno, non agevola l’autonomia della Vittima, non la mette in condizioni di fare progressivamente da sola. Si sostituisce, impedendo all’altro di uscire dalla sua condizione di vittima. Così, diventa il suo Persecutore.
Contemporaneamente però si sforza moltissimo, ma i suoi sforzi sono vani. Questa impossibilità di aiutare davvero è molto frustrante per lui. Comincia a vivere male, a covare rabbia, frustrazione, colpa. La Vittima diventa un Persecutore e il Salvatore si è fatto vittima.
E così, alternativamente, ciascuno gioca uno di questi ruoli che si autoperpetuano senza riuscire ad uscirne.
Il triangolo drammatico descrive efficacemente come mai sia cosi complesso chiudere relazioni tossiche di questo tipo. È una dinamica sostenuta da entrambe le parti, che si rivela, mai abbastanza presto, mortifera per entrambi. Ma si autoalimenta a causa dei bisogni in campo.
Come ripeto ossessivamente la mente fa sempre il meglio per se stessa, anche quando non sembra proprio. Il funzionamento del cervello è un funzionamento adattivo.
La vittima è quella persona così profondamente bisognosa che non può che chiedere continuamente aiuto. Lo fa attraverso il senso di colpa, le minacce di suicidio o altree manovre più o meno sottili per far sentire l’altro importante. Spesso nella sua storia di attaccamento troviamo abusi, maltrattamenti, trascuratezza. Traumi che fanno sentire di non valere nulla, di non poter tollerare l’assenza dell’altro. Terrorizzati dall’abbandono, dalla solitudine o dalla possibilità di avere bisogno dell’altro, in un momento in cui l’altro non c’è, mettono in atto manovre relazionali sfiancanti.
D’altra parte il salvatore, il codipendente, non è da meno. La sindrome della crocerossina è devozione e dedizione ma è anche controllo, critica, giudizio, svalorizzazione. Anche qui ci sono dei profondi bisogni che cercano soddisfazione. Anche qui si trovano storie di trascuratezza emotiva o maltrattamenti e soprattutto inversione di ruolo genitori/figli. Quando noi figli, come nell’inversione di ruolo, ci facciamo carico del benessere dei nostri genitori non possiamo che fallire. Così cresciamo con la convinzione di non essere capaci. E per tutta la vita cerchiamo di cambiare questa condizione penosa!
Il codipendente forse ha imparato, da bambino, che se rinuncia a se stesso in funzione dei bisogni di mamma allora mamma rimane lì vicino. Il che lo mette al sicuro in caso di pericolo.
L’adulto codipendente quindi agisce inconsapevolmente in base a un principio del tipo: “Mi sarà grata, quindi rimarrà con me. Inoltre se io riuscirò a risolvere i suoi problemi mi sentirò finalmente capace, di valere qualcosa. Ma non posso davvero risolverli, altrimenti io rimango solo”.
Il triangolo drammatico viene sostenuto da entrambe le parti perché risponde ai bisogni di entrambi. Due solitudini si incontrano. L’una, senza alcun senso di sé, si modella sull’altra, che finalmente si sente capita, amata e sostenuta. Questo perfetto gioco di rispecchiamento lega profondamente le due persone.
Allora chiudere relazioni tossiche di questo tipo, quando in gioco ci sono dei bisogni così profondi, diventa quasi impossibile. Il punto è che nell’ottica di un cervello adattivo queste relazioni non sono tossiche per niente! Infatti possono andare avanti per anni, per decenni, per una vita intera, se non intervengono elementi a modificare il funzionamento di uno dei due.
L’incessante oscillare tra l’avvicinamento e l’allontanamento che i due partner mettono in atto ovviamente produce in entrambi disperazione, rabbia, colpa. Ma anche questo meccanismo risponde al bisogno fondamentale di entrambi: legare qualcuno a sé. Creare una relazione intima, ma con una importante condizione. Non sono convinto fino in fondo di quella relazione a meno che l’altro non cambi. Questo “A meno che l’altro non cambi” è rassicurante. Io ti vorrei, quasi così ma non proprio così. E questo mi permette di tenermi dentro una porta sempre aperta, che non mi fa coinvolgere fino in fondo. Così, se per caso te ne vai, io non sto poi troppo male.
Le relazioni di codipendenza producono dunque molta sofferenza ma rispondono a necessità che affondano le loro radici nell’infanzia. Quando una persona viene da me per un rapporto che gli provoca sofferenza, ma da cui non riesce a uscire, la domanda che ci facciamo ha a che fare con ciò che c’è di positivo. “Qual è il momento più bello che avete vissuto insieme? Cosa si ricorda dell’inizio della vostra relazione, cosa le è rimasto impresso?”. E poi: “A quali bisogni risponde dunque questa persona?”.
Se sto con qualcuno che mi fa del male c’è una parte di me che vuole uscirne. Ma ce n’è un’altra che sta lì per un buon motivo. Questa parte non è razionale, non segue la logica, ma è molto intelligente. Sa che un suo bisogno sopravvivenziale non è stato sufficientemente soddisfatto e lavora per ottenerlo. Per esempio una parte bambina trascurata sa che ha bisogno di attenzione. Che forse quella persona con cui sto mi maltratta, non mi fa star bene ma quella volta là si è accorta di me. Forse accadrà di nuovo.
Sono bisogni importanti, sopravvivenziali e universali quelli che rendono impossibile chiudere relazioni tossiche, non sono mica capricci. Nessuno si fa del male per capriccio!
Ecco, il nostro lavoro terapeutico sarà accogliere e dare importanza a questa parte bambina, riconoscere questo suo profondo bisogno; il lavoro sarà farle capire che può ottenere attenzione in molti altri modi, perché adesso non è più bambina e ha altre risorse, altre possibilità. Che non è più necessario pagare un prezzo così alto per star bene. Che chiudere relazioni tossiche è possibile, se ci si sente sufficientemente forti e al sicuro.