Comunicare cattive notizie, soprattutto ai bambini, è qualcosa che spaventa molto, ma che prima o poi capita a moltissimi di noi.
Possiamo essere medici o poliziotti che devono comunicare un decesso. O genitori che devono dire che si separeranno o che la nonna è mancata. Oppure possiamo dover dire al coniuge di essere malati.
Comunicare cattive notizie nel modo migliore può fare la differenza su come la persona e i suoi famigliari poi affronteranno il seguito.
L’ideale nella comunicazione di una bad news è aprire in positivo (la prima parte alta della U); poi continuare con la cattiva notizia (la parte bassa della U); e finire con qualcos’altro di positivo (la seconda parte alta della U).
A volte la apertura positiva è solo un abbraccio, altre volte può essere molto più strutturata, anche scritta e preparata con un terapeuta. Si può cominciare parlando di qualcosa di bello fatto insieme, per esempio. O ricordare cose piacevoli sfogliando un album di foto.
Poi comincerà la parte negativa:
Comunicazione: “Ti devo dare una brutta notizia…” Chiara, pertinente, breve ma completa, vera.
“Non so perché sia successo ma so che non è colpa tua”
“Io sono arrabbiata…”
La chiusura dovrà essere positiva, per esempio: “I dottori pensano che potranno curarmi”; “La mamma ti proteggerà ancora di più”; “Quando sarai guarito troverai tutti i tuoi amici”.
Con i bambini bisogna aspettarsi di tutto. Hanno una bassa soglia di attenzione, potrebbero ascoltare pochi secondi, poi giocare, poi ascoltare pochi secondi, poi giocare. Non stanno evitando, stanno cercando di autoregolarsi mentre sentono qualcosa che li spaventa o li preoccupa. E i bambini per autoregolarsi si muovono.
Scegliere cosa fare dopo aver dato la notizia. Che sia cucinare insieme o andare al parco. Va bene qualsiasi cosa vi faccia sentire a vostro agio e vi permetta di stare col vostro bambino. Siate però flessibili. Proponi di fare una torta ma lui dice “voglio andare al parco”? Se possibile, accontentalo. Probabilmente ha bisogno di muoversi. Se dice “Voglio guardare la Tv” forse ha un po’ bisogno di non pensare.
Nel momento in cui riceviamo una notizia traumatica andiamo facilmente sotto shock. Facciamo fatica a sentire quello che ci viene detto in quel momento, sentiamo solo lo stretto necessario. È dunque molto importante che la comunicazione sia il più possibile delicata, ma efficace. Le nostre parole si fisseranno nelle reti mnestiche della persona che riceve la notizia. Soprattutto se la notizia da comunicare è in qualche modo di pertinenza sociale è fondamentale che venga data tempestivamente e da figure adeguate. Altrimenti si rischia che la tv o i social “arrivino prima”. Dovranno esserci parole delicate e protettive, non quelle di un giornalista.
Una buona comunicazione ha almeno quattro caratteristiche: è chiara, è vera, è pertinente, è breve ma completa.
Quando diamo cattive notizie dobbiamo usare tutte le parole che servono ma solo quelle che servono. Non troppe, per non essere ridondanti, non troppo poche, per dire tutto. “Devo darti una bruttissima notizia, il tuo amico ha avuto un incidente e purtroppo è morto”. Forniremo le informazioni necessarie a seconda dell’età e della competenza cognitiva di chi abbiamo davanti. Più la persona è piccola meno parole useremo. Nel dubbio. Comunichiamo come comunicheremmo a un bambino e poi in caso aggiungiamo dettagli.
Dobbiamo ricordare che il nostro compito di genitori non è evitare le situazioni difficili ai nostri bambini ma fornire loro gli strumenti per affrontarle. Dire la verità sembra contro, perché vorremmo sempre tutelarli dal dolore. Ma la verità è la vera forma di protezione. Perché quando non dico la verità con le parole questa emerge comunque a livello non verbale. Questa dissonanza tra verbale e non verbale crea confusione in chi mi ascolta. Conoscere la verità dà una sensazione di controllo e padronanza che invece non c’è nella confusione. L’altro si accorge che non gli stiamo dicendo qualcosa o che stiamo distorcendo la realtà. Lo lasciamo dunque in uno stato di confusione e di preoccupazione. Vedrà su di noi sentimenti e paure che proverà lui stesso ma senza poterli elaborare perché non se ne può parlare.
Se è un bambino capirà di non poter parlare di come si sente. Sentirà comunque la paura, la rabbia, la tristezza, ma dovrà gestirsele da solo, non potrà cercare conforto e aiuto. Più facilmente metterà in atto dei comportamenti problematici, perché quello che non si può dire si finisce con l’agirlo.
Se mi sento padrone della situazione posso tirar fuori risorse per affrontarla, se sto nella confusione mi sento impotente, in balìa delle informazioni altrui. Il mio cervello non può chiudere e così va alla ricerca di elementi di realtà a cui appoggiarsi, generando solo altra confusione.
Tra le poche parole che dobbiamo usare nel comunicare cattive notizie ci sono di certo quelle che fanno più paura. Morte, suicidio, cancro, amputazione, disabilità, divorzio.
Se siamo medici usare paroloni e termini tecnici ci fa sentire protetti. Siamo competenti, siamo nel nostro ruolo, possiamo mantenere una distanza. Ma la comunicazione deve essere comprensibile, chiara.
Dobbiamo talvolta usare anche parole tecniche, come per esempio chemioterapia. Se ci sono parole difficili è importante spiegarle. La mente deve già “assorbire il colpo” emotivo: dobbiamo rendere le cose facili per il cervello dal punto di vista cognitivo.
Dobbiamo parlare del tema, senza digressioni o divagazioni. Devo comunicare a una mamma in sala parto che suo figlio è nato con una malattia grave e che dovrà sottoporsi a un intervento urgente? Dico il nome della malattia, dico che tipo di intervento dovrà fare, quali rischi corre con l’operazione e senza l’operazione. Se l’intervento non è urgente comunico la diagnosi e dico che ci sarà da fare un intervento. Aspetto un secondo momento per fornire i dettagli, parlare dei rischi, chiedere il consenso informato.
Idealmente, chiedo alla persona se vuole che continui. “Ti devo dare una brutta notizia, il tuo amico ha avuto un incidente e purtroppo è morto”. Poi possiamo chiedere: “Vuoi che vada avanti, che ti spieghi meglio cosa è successo?”. Una volta comunicata la notizia lasciamo all’altro il tempo di assorbire e chiediamo se vuole che proseguiamo o se ha domande da farci.
Le persone, soprattutto i bambini, tendono a non esprimere le loro emozioni se sentono che l’altro non reggerebbe. La cosa migliore per permettere che questo accada è nominare le nostre. “Io sono preoccupato, puoi esserlo anche tu”. “Piangere è normale, con le lacrime esce la tristezza”. È importante legittimare le emozioni e riconoscerne il valore protettivo anche quando sono negative. Se non ci fosse la paura di morire non ci faremmo curare, per esempio. O finiremmo sotto una macchina al primo incrocio. Eppure, accanto alla paura, ci sono molte altre cose con cui possiamo proteggerci, per esempio i semafori. E i dottori, con il loro sapere scientifico, potranno curarci. I nonni, gli zii, gli amici, potranno sostenerci nell’affrontare questo momento difficile.
Nel comunicare cattive notizie, soprattutto coi bambini, sarà importante dire qualcosa sulla colpa. Per esempio: “Non sappiamo perché questo sia successo ma sappiamo che non è colpa tua”. Fino a 7 anni perché sono ancora dentro al pensiero magico per cui pensano di poter influenzare la realtà con le loro azioni; dopo perché sono sempre più consapevoli delle cose, per esempio della relazione tra stress e malattie. E allora possono pensare che la mamma si sia ammalata perché troppo stressata a causa loro. Certo, il senso di colpa ci serve perché ci fa sentire di poter agire sulle cose, di non essere impotenti. Ma a volte alcune cose accadono e non è assolutamente colpa di nessuno.