Quando la mamma urla il suo bambino piange, e lei con lui.
Quando la mamma urla vorrebbe poi sprofondare nel più cupo degli abissi, ma non può, perché deve consolare il suo bambino che lei stessa ha spaventato. Lei che lo ama così tanto e così profondamente non si spiega come questo possa accadere.
Quando la mamma urla una parte del suo cervello dice: “Fermati, basta, lo vedi che è piccolo e spaventato”. E un’altra parte, sconosciuta, furiosa, prende il controllo della mente e fa e dice cose senza potersi fermare.
Ma cosa succede quando la mamma urla così tanto da spaventare il suo bambino, da fargli pensare che lei sia pericolosa per lui?
Una mamma che urla si sente impotente e il suo bambino anche di più.
Lui ha molta paura, ma la stessa persona da cui cerca protezione è quella che lo spaventa. Un bel pasticcio, povero piccolo. Non sa come fare a farla smettere e non sa come evitare che capiti di nuovo. Gli viene in mente che forse una soluzione c’è, che può non fare più quello che ha fatto tanto arrabbiare la mamma. Lui non lo sa che quando la mamma urla è successo qualcosa dentro di lei, che lui non è cattivo, che lei ha perso il controllo. Lui pensa che deve essere più bravo. Pensa che deve fare meglio. Si sente in colpa, e questo in realtà lo solleva perché non è più impotente: lui ha fatto qualcosa, lui ha l’illusione di poter evitare che ricapiti.
Nessun bambino sa che quando la mamma urla troppo è solo perché lei non è riuscita a fare in un altro modo. Non perché lui si sia meritato quelle urla.
La mamma che urla sembra molto diversa da quella che c’è in tutti gli altri momenti. Quando esplode la mamma sembra quasi posseduta. In effetti si dice che è, in quel momento, fuori di sé. Eppure non è proprio così. In quel momento sta urlando una parte di lei che normalmente non si vede, che tace, che altre parti tengono a bada.
Quando la mamma urla lo fa perché è fin troppo in sé, fin troppo dentro, troppo poco a contatto con quello che sta accadendo in realtà. Urla perché qualcosa si aggancia ad un dolore interno, profondo, antico. un dolore che può essere un senso di soffocamento, di inadeguatezza, di non essere abbastanza. O di essere impotente. Può essere tuo figlio che si impunta per non lavare i denti, che ti fa risuonare un senso di impotenza che ti porti dentro da chissà quando.
Emerge allora quella voce che denuncia quel dolore materno, che lo fa male, lo fa urlando, ma grida al mondo che così non va bene. Così che tu lo senta bene bene che hai tanto bisogno anche di ascolto e riconoscimento. Così che lo senta bene anche la brava bambina obbediente che c’è in te.
Quando la mamma urla il suo bimbo si arrabbia. Per il senso di ingiustizia, l’umiliazione, la mortificazione. E si porta dentro questa rabbia, cova dentro di lui. Difficilmente un bambino la può esprimere senza essere redarguito, o controllato. Ma quando ci sentiamo trattati ingiustamente siamo furiosi anche noi adulti! Ricordiamocelo, dopo aver urlato a un bambino. Ricordiamoci di dire che è legittimo quel senso di vergogna e di rabbia che lui prova.
In ottica psicologica (quindi tralasciando la riflessione sulle strategie pedagogiche possibili) per evitare di perdere il controllo i passi sono fondamentalmente due: accettare e capire. Accettare la propria rabbia è necessario. La ragione principale per cui esplodiamo in modo così improvviso è che cerchiamo di controllare la nostra emozione oltre il limite per noi tollerabile.
Siamo abituate a sacrificarci, convinte di dover essere sempre accoglienti e amorevoli, magari infarcite di teorie sulla libertà del bambini; da Cenerentola in poi ci è stato insegnato che dobbiamo accettare tutto e fare tutto col sorriso. Ci imponiamo così di controllare i nostri sentimenti. Finché, come pentole a pressione, esplodiamo. Accettare la propria rabbia significa legittimarla prima che diventi furia e poterla comunicare in modo adeguato. Adeguato vuol dire rispettoso: in fondo, nel momento in ci rispetto me stessa, mi è più possibile rispettare l’altro.
Per accettare la propria rabbia meditazione e pratiche di mindfulness sono una buonissima idea. Allenano un’abitudine ad ascoltarsi e accettare di stare nel momento presente senza giudizio e senza negazione. Questo è il passaggio fondamentale che ci permette di accorgerci di come stiamo e di scegliere se e come comunicarlo.
L’altro aspetto importante è capire da dove viene questa rabbia, a cosa serve e in che cosa mi aiuta. Come accennavo può essere che mi protegga dal senso di impotenza, o di inadeguatezza. Se cerco solo di farla fuori, di controllarla ancora di più e possibilmente estirparla, non sono sulla strada giusta. Quando la mamma urla la sua mente non è integrata, è divisa: una parte grida, l’altra dice STOP. La comprensione profonda di sé è la chiave per l’integrazione. Ovviamente per questo la psicoterapia è la via preferenziale per integrare, comprendere e legittimare tutte le emozioni.
La mamma che sente di aver urlato troppo e vuole rimediare deve innanzitutto chiedersi cosa è successo in lei e poi spiegarlo al suo bambino. Spiegarlo con poche e semplici parole, in modo che lui possa intuire qualcosa sulla mente della mamma. Non dobbiamo approfittare di un momento come questo per farlo sentire in colpa, mi raccomando! Se io dico “Ho urlato perché tu non vuoi mangiare” do la colpa a te per la mia rabbia. Se io dico: “Ho visto che non mangiavi, questo mi ha preoccupata e non sapendo come altro fare ho urlato” descrivo quello che sento. Leggere e conoscere un po’ i principi di comunicazione non violenta può essere di grande aiuto. Se non riusciamo a capire le ragioni di quella reazione possiamo anche dire: “Non so esattamente perché ho reagito così, ma la mia reazione dipende da me”.
Si può fare. Quando la mamma urla può chiedere scusa al proprio bimbo per aver superato il limite, anche qui con uno scopo preciso. Se chiedo scusa per sentirmi meglio io è una cosa: voglio che lui mi perdoni, voglio essere assolta, in pace con la mia coscienza. Possiamo toglierci subito il dubbio: i bambini ci perdonano tutto. Il problema è piuttosto che non perdonano se stessi. Allora cerchiamo di chiedere scusa per dare un insegnamento diverso: “Io sono l’adulto, ho sbagliato, vorrei rimediare. Non è colpa tua, tu sei un bambino”. Noi adulti dobbiamo avere molto chiaro che non sta nei bambini la responsabilità dell’appropriatezza delle nostre reazioni.